Paola Lattanzi in “Sopra di me il diluvio_ultima trancia” di Cosimi alla Biennale di Venezia
Nella giornata intensissima passata a Venezia per la Biennale Danza diretta da Virgilio Sieni, un posto speciale ha occupato l’ultima creazione di Enzo Cosimi, “Sopra di me il diluvio_ultima trancia”. Ne ho scritto sul Manifesto ieri, recensione di cui voglio resti traccia anche sul mio blog: è uno spettacolo in cui credo.
Un rumore sordo, avvolto in un fumo plumbeo, aspetta al Teatro alle Tese di Venezia, gli spettatori. Sulla sinistra della scena c’è una vecchia poltrona a fiori da cui partirà l’azione dell’unica protagonista, Paola Lattanzi. La coreografia, la regia, le scene, i costumi sono di Enzo Cosimi. Titolo: “Sopra di me il diluvio_prima trancia“, debutto assoluto della Biennale Danza 2014, diretta da Virgilio Sieni.
Sedendoci in gradinata, la scena ci colpisce con un impatto sensoriale. Siamo a un nuovo capitolo della scrittura di Cosimi che vive di abbacinanti contrasti. Nella memoria l’assolata gioventù di “Calore”, spettacolo del 1982, rimontato nel 2012, e il suo contraltare visivo e emozionale, “Welcome to my world“, parabola notturna, apocalittica. Paola Lattanzi era già era tornata a lavorare con Cosimi per “Welcome”. Se Cosimi è un coreografo che meriterebbe un premio per la lucidità creativa con cui da più di trent’anni esplora ciò che sceglie, Lattanzi, sua danzatrice storica, trafigge la scena con una personalità di altrettanto rilievo. Il suo movimento è abitato da un graffio androgino, una tensione dei nervi che dall’interno fa fremere il corpo. Una danza meravigliosa, irrefrenabile nella necessità di esserci.
Lattanzi, in poltrona, capelli sciolti e occhi neri come la pece, maglietta e mutande dello stesso colore, pelle lattea, e scarpe con il tacco, ha in mano una sorta di fossile, osso bianco che ricorda una gigantesca tibia, circondato in scena da altri simili reperti. Avanzi o cimeli di una era tribale, che, a contatto con la donna viva, fanno entrare in corto circuito il concetto stesso di tempo. Come se Lattanzi brandendo le ossa per la scena, schiacciasse con violenza una contro l’altra le epoche dell’umanità, gettando una luce livida, realistica, su cosa sia l’uomo contemporaneo. Gambe aperte, fossile stretto tra le cosce, scosse ripetute, Lattanzi incarna l’Eros come forza primigenia e vitale. Una sorta di dea animale che marca come una furia ferita il perimetro del suo territorio, la scena. È una belva che misura il terreno, lo studia, aggredendolo con sguardi e passi, feroci come lame di coltello.
Lattanzi ha fatto il giro dello spazio. A terra, si toglie i tacchi, si stira con potenza, preparandosi, più ferina che mai, alla conquista del mondo che sta dentro al perimetro. Il fumo è ora una nebbia striata di bianco che aleggia sulla scena con nubi alte e orizzontali. La danzatrice affronta guardinga lo spazio più centrale di un territorio che sembra popolarsi di fantasmi da sopraffare. Affonda il viso in una scatola, lo rialza con in bocca strisce di stoffa rosso fuoco. La furia ha catturato la sua preda.
«Chi siamo noi oggi?» – sembra dirci quella testa che si scuote. «Belve che uccidono, pronte a tutto pur di essere i più forti, o anime disperate, eroiche nel tentativo di farsi sentire?» I fossili intanto diventano collane da portare in un rito che profuma d’Africa. La musica, un mix di Chris Watson, Petro Loa e Jon Wheeler, è sempre più densa, ma anche piangente, con voci lontane che crescono e si sovrappongono. L’Africa diventa l’immagine portante che dal piccolo monitor televisivo posizionato in centro alla scena si estende nel film proiettato sullo sfondo (toccante video di Stefano Galanti), culminante nella figura di un bimbo in controluce.
Il piccolo rema su un fiume in una calma che dà respiro. Innocente, con il suo movimento pacato e naturale, affianca uno scenario altro alla rabbia focosa, conflittuale di Lattanzi. Il ritmo lento dei remi nell’acqua trasforma l’urlo tragico della fiera in un grido di battaglia contro la morte, contro la fine, contro l’oltraggio della natura. E così quelle mani sulle costole che spingono il corpo contro se stesso in una lotta che non può risolversi, quei fossili che diventano fucili, quei resti di chissà chi con i quali vestirsi, fanno esplodere il cuore nella danza finale di questa straziante capo tribù sola. 40 minuti esemplari, che trascinano con sé il pubblico in un moto emotivo senza pause e inutili ripetizioni. Ed Enzo Cosimi, ancora una volta, eccelle per la potenza drammaturgica di una scrittura coreografica perfetta nei tempi e nella struttura spettacolare.